venerdì 22 ottobre 2021

Domenico Tiburzi, 125 anni dalla morte avvenuta il 25 ottobre 1896 (vedi Atto in fondo al post)



 Il Giunco.net, quotidiano on line della Maremma Toscana, ha pubblicato questo interessante articolo con successiva intervista ad una signora riguardo la morte del brigante, l'articolo è uscito il 23 ottobre 2019 sul sito ilgiunco.net che ringraziamo, di seguito il testo integrale:

GROSSETO – Parlare di Maremma significa raccontare storie ricche di tradizioni, usanze, miti e leggende. Tra tutte, merita un approfondimento quella che narra la vita di Domenico Tiburzi, il più famoso brigante di Maremma. La storia di Domenichino, così veniva chiamato per la sua bassa statura, è una storia vera, avventurosa, e intrisa di leggende: a ogni maremmano i nonni hanno raccontato almeno una novella che vedeva lui come protagonista, e ogni volta che veniva e viene narrata, è impreziosita di particolari romanzati che la rendono ancora più affascinante.

In Maremma i primi casi di brigantaggio risalgono al XIII secolo, anche se la diffusione del fenomeno si concentra nella seconda metà dell’800, prolungandosi sino agli inizi del ‘900. La morte di Tiburzi prima e quella del suo fido compagno Luciano Fioravanti poi segnano la fine del brigantaggio nel grossetano. Fenomeno assai complesso, possiede specifiche peculiarità in base alla zona e al periodo di diffusione. In Maremma, come in altre zone d’Italia, il brigantaggio ha attecchito per tre motivi principali:
il favore della popolazione, che vedeva nei briganti gli eroi in grado di rimediare ai torti subiti dal governo;
il favore dei proprietari terrieri, che pagando la “tassa sul brigantaggio” si garantivano la protezione da parte dei banditi;
l’ambiente, caratterizzato da una macchia impenetrabile, dimostrandosi il rifugio ideale per i fuorilegge.

Che sia stato principalmente il ‘malgoverno’ a favorire lo sviluppo del brigantaggio, veniva confermato anche da Giuseppe Massari, deputato del Regno d’Italia, che nella sua “Relazione sulle cause del brigantaggio” (1863) definiva il fenomeno come “la protesta selvaggia e brutale della miseria contro le antiche e secolari ingiustizie”. Non a caso, gli episodi più gravi di violenza si verificarono ai danni di carabinieri, guardiani, fattori e altri rappresentanti del potere padronale e dello Stato.

In questo contesto si inserisce la storia di Domenico Tiburzi. Nato a Celere (Viterbo) nel 1836, iniziò a compiere le sue prime rapine da ragazzo. All’età di 16 anni veniva incluso in un elenco di ricercati per furto, mentre a 19 anni veniva processato per lo stesso reato ma assolto subito dopo. A 27 anni Domenichino era arrestato per aggressione e ferimento, per poi essere rimesso in libertà per “desistenza della parte offesa”.

Nel 1867 Tiburzi compiva il suo primo omicidio, uccidendo Angelo Bono, il guardiano del marchese Guglielmi, dopo che lo aveva multato di venti lire, una cifra molto alta per quei tempi, per aver raccolto un fascio di spighe nel campo del marchese. Dopo il misfatto, Tiburzi si dava alla latitanza nella profonda macchia maremmana, ma nel 1869 veniva arrestato e condannato. Tre anni dopo evadeva di carcere per rifugiarsi nella macchia maremmana, dove si alleò ad altri briganti, diventando ben presto capo banda.

Sono numerosi i delitti di compiuti da Domenico Tiburzi. Nel 1883, con i suoi compagni uccise il biscaiolo che aveva condotto i Carabinieri nel rifugio dei briganti, visto che su Tiburzi pendeva una taglia di 10mila lire. Dopo un colpo di pistola, Domenichino lo finì sgozzandolo. Nel 1888 uccise Raffaele Pecorelli, colpevole di aver rubato un maiale al nipote Nicola. Ma gli omicidi di cui si macchiò – numerosissimi – riguardarono soprattutto gregari che non stavano alle regole, spie, o chi commetteva rapine in suo nome, “infangando” la sua immagine.

Ma Tiburzi era visto come un Robin Hood dei nostri tempi dalla popolazione. Il brigante, infatti, istituì la “tassa sul brigantaggio” che dovevano pagare i ricchi possidenti terrieri (in caso di mancato pagamento, i loro campi venivano dati alle fiamme). Il ricavato veniva donato ai poveri.

Nel 1893 Giovanni Giolitti ordinò alle autorità di catturare tutti i briganti, ma Tiburzi riuscì a scappare insieme ad altri. In Maremma, infatti, si creò un vero e proprio muro di omertà in protezione dei briganti che indignò lo stesso Giolitti. Per questo, in poco tempo, furono effettuati molti arresti che coinvolgevano nobili, contadini, pastori, tutti accusati di favoreggiamento. La caccia al bandito, così, divenne sempre più serrata e spietata. Per sconfiggere il brigantaggio a Grosseto arrivò un nuovo capitano dei Carabinieri, Michele Giacheri, conosciuto per aver ottenuto ottimi risultati contro il banditismo calabro. Per tre mesi il capitano studiò tutti i fascicoli che aveva a disposizione, dopo di che iniziò la ricerca dei banditi.

La notte del 23 ottobre 1896 Domenico Tiburzi bussava alla porta di una casa in località Forane, a Capalbio, insieme al suo luogotenente Luciano Fioravanti. Era una serata di pioggia e i due cercavano riparo e un pasto caldo. Quella notte i carabinieri arrivarono all’abitazione e uccisero Domenichino colpendolo con due colpi di fucile sulla gamba e alla nuca. Fioravanti riuscì a fuggire. Morì successivamente, nel 1900, per mano di un compagno traditore.

Tiburzi riposa nel cimitero di Capalbio, dove venne sepolto “mezzo dentro e mezzo fuori”, risultato questo del compromesso raggiunto tra il prete del paese, che non voleva che il bandito fosse seppellito in terra consacrata, e la popolazione, che richiedeva degna sepoltura per il paladino dei diritti dei più deboli. Quindi si scavò una fossa proprio nel punto in cui si apriva l’originario cancello d’ingresso del cimitero, perpendicolare al cancello stesso: gli arti inferiori di Domenichino, simbolo del corpo, furono adagiati in terra consacrata, mentre la testa e il torace, sede dell’anima, rimasero fuori.

 

 

 

GROSSETO – Dopo il pezzo di ieri su Domenico Tiburzi, la nostra lettrice Carla Vannetti ci ha scritto per informarci che qualche tempo fa, nel 1996, aveva intervistato un contadino di Marsiliana il cui padre aveva conosciuto personalmente il brigante. Ringraziando Carla, pubblichiamo integralmente la sua intervista.

La storia comincia nel lontano 1891. Era il giorno di Pasqua. Il mì babbo aveva 15 anni. E’ del ’76, sicché. Io sono del ’15. Quando sono nato io lui aveva 39 anni. Io ero il sesto figlio. Quindi eravamo nel 1891. Era il giorno di Pasqua e i miei si preparavano per andare a Messa. Il nostro podere era nella tenuta della Marsigliana, oltre l’Albegna. C’era solo quel podere a quei tempi. La mia famiglia era a mezzadria del Principe Corsini. Verso le dieci capitarono Tiburzi e Fioravanti. Dissero che volevano mangiare. Che era una decina di giorni che erano in corsa. Coi carabinieri alle calcagna. Fioravanti si fece prestare il rasoio dal mi’ babbo e cominciò a farsi la barba. La mia nonna intanto gli preparava qualcosa da mangiare. Non fece in tempo a radersi che all’uscio c’erano i Carabinieri di Magliano in Toscana. Vicino al fienile c’erano dei tavoloni appoggiati al muro. Tiburzi si nascose lì dietro. Davanti ai tavoloni un mucchio di fieno. Invano i carabinieri, coi forchetti, pungevano il fieno. Fioravanti intanto prese sulle spalle un ballino di legna sciolse due muli e finse di portare le bestie all’abbeveratoio. Fioravanti, convinto di non essere riconosciuto, si avvicinò ai carabinieri .Tra questi c’era però un giovane che l’aveva visto una volta in quel di Marsiliana. Si avvicinò al maresciallo e disse: “Maresciallo, quello è Fioravanti”. Il maresciallo ordinò il fuoco e gli spararono. Dice che c’era una siepe di marruche lì vicino. Il mandrione. Ci tenevano dentro le bestie selvatiche, Fioravanti volò quella siepe senza sfiorarla per niente. Fioravanti era un tipo sveglio. Però gli spararono e lo presero in una coscia. Andarono poi a cercare Tiburzi, convinti che dove c’era uno c’era anche l’altro. Invece non lo trovarono. Così i carabinieri se ne andarono.

I carabinieri non fecero nessun verbale?

No. Ma prima di andar via andarono al cancello del mandrione. Videro il sangue e pensarono di cercare Fioravanti nel bosco. Ma il maresciallo non volle perché ferito com’era, disse, avrebbe ammazzato tutti e loro non lo avrebbero preso. Così se ne andarono.
Tiburzi allora uscì dal suo nascondiglio. Prese qualcosa da mangiare, un po’ di medicine e andò da Fioravanti. Il giorno dopo tornò al podere, lui solo, però. Mio padre verso mezzogiorno dava il cambio ai bovi. Sai che a quel tempo bisognava dare il cambio ai bovi e mio padre era addetto a questo lavoro. Portava i bovi al lavoro e portava indietro quelli stanchi.

Vostro padre non lavorava con l’aratro?

No, lui era addetto alla stalla. Aveva solo 15 anni. Alle 10 il mi nonno andava a portare il pranzo a Tiburzi e Fioravanti. Ci andava due volte al giorno.

Ma dove stavano i due briganti?

Stavano nella macchia. C’era un cocuzzoletto.

Ma era vicino al vostro podere?

Si, era vicino. La macchia faceva parte del nostro podere. Alle 5 andava a portargli la cena. Tutti i giorni quel lavoro lì. Mio padre raccontava che ci stettero più di un mese e mezzo. Poi andarono via. Pagarono . E il mi’ babbo…

Ma il vostro babbo vi disse quanto avevano pagato?

No. La mi’ nonna sapeva cosa avevano mangiato. Loro pagarono la mi’ nonna. Io non so quanto. Al mi’ babbo gli dettero 10 lire. Pensa che il mi’ babbo era astemio, non gli piaceva il vino. Ma dopo di loro cominciò a bere. Loro glielo davano e qualche volta si ubriacava anche.

Scusate una parentesi. Ma vostro padre era piccino a quei tempi. Loro trattavano con vostro nonno. Come si chiamava vostro nonno?

Angelo si chiamava. Come me. Vedi, quello lì con la barba. Così i briganti andarono via. Ma ogni tanto ritornavano. Al mi’ babbo nel mese di ottobre gli venne il tifo. Lo portarono all’ospedale dove fu curato alla meglio e poi fu riportato a casa. Ma il ragazzo, che si trattava di un ragazzone, alto circa un metro e ottantasette, aveva sempre fame e cominciò a mangiare quello che gli capitava. Così gli rivenne il tifo un’altra volta. Lo riportarono all’ospedale. E questa volta ci stette un paio di mesi. Poi il professore disse di riportarlo a casa che non c’era più niente da fare. Le febbre non passava. Mangiare, poteva solo mangiare un pochino di brodo sgrassato.

Ma era tifo o qualch’altra cosa?

Io penso che era debolezza. Dopo un po’ di giorni che era a casa, ripassarono di lì Tiburzi e Fioravanti. “Dov’è il nostro Fello?” – così veniva chiamato mio padre – chiesero.
“Fello ormai è andato” disse mio nonno. E mia nonna si mise a piangere.
“Come? – disse Tiburzi -. Fello è morto e voi non ci avete fatto sapere nulla?”
“Non è morto ma è come se lo fosse” rispose mio nonno.
Parlavano piano per non farsi sentire, ma mio padre ce la fece a levarsi dal letto e si affacciò nella stanza dove loro parlavano. Fioravanti fece appena in tempo a sorreggerlo che lui svenne. Lo riportarono a letto .
“Perché ti sei alzato?” disse Tiburzi.
“Pensavo che andaste via senza salutarmi” rispose babbo.
“E’ vero che siamo dei banditi – proseguì il brigante -, ma come potevamo andar via senza salutarti. Sta’ tranquillo. Ti manderò in un posto dove ti guariranno”.

Ma il vostro babbo che gli aveva fatto a Tiburzi?

Gli aveva portato da mangiare per un mese e mezzo. Tiburzi chiese allora al mi’ nonno se era ancora in amicizia col ministro del principe Corsini. Avutane risposta affermativa, gli disse di mandare uno dei suoi figli maggiori a dire al ministro che mandasse, il giorno dopo all’alba, la carrozza coperta e una pariglia alla Mariannaccia.
“Portalo subito a Pitigliano” gli disse, e gli dette un pettinino da uomo diviso a metà e uno specchietto rotondo, anche quello diviso a metà.
“Quando arrivi vai dallo speziale e fagli vedere queste cose. Vedrai che lui ti aiuterà”.
“Ché sta male Tiburzi?” chiese preoccupato lo speziale quando il mi’ nonno gli mostrò gli oggetti.
“Si tratta di mio figlio” spiegò il mi’ nonno.
Subito lo speziale chiamò un ragazzotto e fece portare in casa il mi’ babbo. Mandò poi a chiamare il professore, un uomo alto con un gran cappellone nero. Dovrebbe essere stato un ricercato o un confinato. Di giorno non si faceva mai vedere. Venne proprio perché lo mandò a chiamare se no lui di giorno non si faceva mai vedere. Era forestiero. Visitò il mi’ babbo e gli diede subito da mangiare. Tagliatelle. Un po’ di carne. Un morsettino di pane e un po’ di vino. Poretto. Nelle condizioni in cui era, pelle ed ossa, dopo mangiato quella poca roba svenne. La mi’ nonna si spaventò ma il professore si mise a ridere. “Stia tranquilla signora – disse -. Suo figlio al 99 per cento è sano perché ha reagito”. Dopo 12 giorni mio nonno andò a riprenderlo con la solita carrozza, si era rimesso in forze. Ed è vissuto fino ad 89 anni, è morto nel ’63.

Quei ritratti lassù sono i vostri nonni?

Si. Lui si chiamava Angelo e lei Rosa.

Quando è morto Angelo?

E’ morto nel ’28. Il giorno non me lo ricordo. E la mi nonna nel febbraio del ’37.
Allora il mi’ nonno portò molta roba a quello speziale, soldi e generi alimentari , per quei 12 giorni, ma lui non volle niente.
“Io e Tiburzi siamo come due fratelli – disse lo speziale -. Lui aiuta me ed io aiuto lui. Se Domenico sapesse che vi ho preso qualcosa per quello che ho fatto, diverrebbe il mio peggior nemico”.
Ogni tanto, specialmente la domenica, Tiburzi e Fioravanti ritornavano al podere di mio nonno.

Voi però mi avete detto che sapete la vera storia della morte di Tiburzi. Quello che mi avete raccontato finora è l’antefatto. Vediamo ora di entrare nel vivo della storia.

Oggi è il 25 di ottobre del ’96. Guardate la coincidenza. Tiburzi fu ammazzato la notte tra il 25 e il 26 ottobre del 1896.

No, no la notte tra il 23 e il 24.

Macché tra il 25 e il 26. Sicché stanotte sarebbero cent’anni esatti. Era la mattina del 25 di ottobre. Il mio babbo e due dei miei zii stavano per uscire di casa per andare a passare una mezza giornata a Marsiliana, alla dispensa. C’erano là Tiburzi e Fioravanti che però scapparono subito perché videro i carabinieri che venivano di lassù dal castello verso la dispensa col sottogola. Perché quello era il segnale che quando i carabinieri non avevano il sottogola non li toccavano. Quando avevano invece il sottogola significava che avevano avuto l’ordine di affrontarli. Allora scapparono. Dopo un po’ venne il guardiano – non mi ricordo il nome – e disse a mio padre che Domenico lo voleva. Era giù sotto Marsiliana. Lui andò giù e Tiburzi gli disse che la sera avrebbero fatto una festa, un ritrovo giù alle Forane. Lui e i suoi fratelli erano invitati. “Si fa una bella stortellata – disse – e poi una fisarmonichetta e si balla”.

Allora, ricapitolando: loro erano passati in giornata dal vostro podere.

No loro si erano trovati alla dispensa di Marsiliana.

Ma i briganti giravano così indisturbati alla dispensa?

Certo, poi però videro i carabinieri. Il mì babbo disse che non poteva accettare l’invito perché si sarebbe dovuto allontanare troppo da casa. “Se non ci vieni ci resto troppo di male – disse Tiburzi – devi venire”. Così il mì babbo, che allora aveva vent’anni, fu costretto ad accettare. Tiburzi gli aveva salvato la vita e lui avrebbe fatto qualsiasi cosa per non contrariarlo.

Ma il vostro babbo che diceva, che era un onore per lui andare con Tiburzi o no?.

No. Lui ci andava per riconoscenza. Si sentiva obbligato. Insomma il mi’ babbo non ci voleva andare ma alla fine accettò. “Venite col guardiano – disse Tiburzi- e poi quando annotta prendete i cavalli e tornate a casa”. Alle Forane c’erano tortelli dappertutto e vino e carne. Fecero una bella mangiata. Poi ballarono . Tiburzi bevve. Seduto in un canto presso il foco ogni poco chiamava perché portassero altro vino. Il vino poi finì e Tiburzi, che quando aveva bevuto diventava cattivo, se la prese con il padrone, il contadino diciamo così, forse perché con i soldi che gli aveva dato doveva comprarne di più. Tiburzi si arrabbiò e disse di correre a comprarne ancora. L’oste però era già a letto. I due ragazzi cominciarono a chiamarlo e quel chiasso richiamò il maresciallo. “Che succede?” disse. E l’oste spiegò che doveva mandare il vino alle Forane che c’era una festa. Il maresciallo chiamò i carabinieri e andò con loro alle Forane. Circondò il podere.

Erano lì di stanza a Capalbio, non erano di fuori?

No erano di lì. A 50 metri dal podere c’era uno ziro mezzo rotto. Il maresciallo o brigadiere gli mise intorno la mantellina e sopra il cappello. Ci attaccò una lanterna accesa. Poi rivolgendosi ai carabinieri disse: “State attenti. Appena Tiburzi si accorge di noi, sorte fuori e spara. Voi state attenti da dove viene la vampata”. Infatti lui uscì fuori e sparò.

Ma perché lui si affacciò?

Perché sentì i cani che abbaiavano, e quando vide la lanterna che illuminava il berretto del maresciallo sparò. Subito anche i carabinieri fecero fuoco e gli troncarono una gamba. Dice che quando Tiburzi sentì gli spari, spense il lume e li fece buttà tutti a terra e poi lui sortì e sparò alla lanterna. Fioravanti lo voleva prendere a spalla ma lui gli disse: “No. Vai via. Tu sei giovane. Io ho vissuto anche troppo alla macchia”.

Ma intanto i carabinieri non continuavano a sparare?

No. Il Maresciallo gridò: “Domenico, sei circondato. Arrenditi. Siamo in tanti. Finirai a marcire in galera”. Tiburzi, trascinandosi in terra, rientrò in casa e andò a sedersi sulla seggiola dove era prima e da lì parlò al maresciallo. “Mi prenderete si, ma morto. Non finirò a marcire in galera – rispose il brigante – Questa gente che è qui con me non c’entra niente. Non volevano far festa a me. Son venuti per paura. Non gli fate niente”.

Ma i carabinieri non entravano per prenderlo?

Il brigadiere aveva paura ad entrare. Per questo stava fuori della porta a chiacchierare con Tiburzi.
“Sta tranquillo – disse il maresciallo – possono andare via tutti. Non gli faremo niente. Basta che tu ti arrenda”.
“Glielo ho promesso – disse Tiburzi -. Mi arrendo. Ma mi piglierete morto”. E così dicendo si mise la pistola alla gola e sparò.

E il vostro babbo era presente a tutte queste cose?

Si era presente. Dopo scapparono via saltando dalla finestra della camera dietro. Presero il cavallo e tornarono a casa. Insieme al guardiano della Marsiliana. Dall’autopsia che fecero a Tiburzi risultò che il foro era dietro alla nuca e non nel sottogola, però. Forse la pallottola era uscita dall’altra parte. Aveva bucato anche il cappello. Il principe Corsini non veniva alle cacciate a Marsiliana se Tiburzi e Fioraventi non erano nella tenuta.

Servivano allora come guardie del corpo?

Pari pari. Perché a quei tempi c’erano tanti marioli, e quando c’erano loro era tutto tranquillo. Quel giorno il mi’ babbo e i suoi fratelli erano andati a Marsiliana perché piovigginava e non potevano fare il lavoro nei campi.

Insomma quei briganti giravano indisturbati per la zona. Vivevano col popolo. Erano tranquilli insomma, tanto nessuno gli faceva niente.

Certo, pagavano apposta per stare tranquilli.





domenica 25 luglio 2021

Eremo di Poggio Conte - Ischia di Castro (VT)

 L'Eremo è situato sulla sponda sinistra del fiume Fiora, nei pressi del ponte di San Pietro, è un luogo magico senza ombra di dubbio, per arrivarci, a piedi, si percorre stradina sterrata al bordo del fiume e poi sentieri nel bosco fra querce secolari, selci e ponticelli di legno fra tumuli etruschi e panorami da togliere il fiato, la mente si quieta e l'Anima si risveglia. Sul web si trovano storia e indicazioni, ma se volete visitarlo affidatevi a noi per la totale sicurezza, non ci sono indicazioni e si passa fra branchi di bovini bradi, insomma, se non siete Indiana Jones, meglio stare attenti.

interno Eremo (travelfanpage.it)






domenica 3 gennaio 2021

 Restauro Ponte della Badia Vulci

Cliccando sul link qui sopra la comunicazione della Sovrintendenza Archeologica sul restauro



veduta aerea del ponte e del Castello 

della Badia di Vulci